Qualche giorno fa, andando a buttare la spazzatura, ho notato, accanto ai cassonetti, il corpo di un uccellino. In condizioni disastrose, non era un bello spettacolo con mezza testa fracassata e le ali piegate in una posa innaturale. L’ho dato per morto, e me ne sono velocemente dimenticato.
Era mattina presto, di una giornata particolare: una breve vacanza in vista, tante cose da fare, preparativi dell’ultimo minuto, fretta, un po’ di nervosismo, e non ho avuto tempo per pensare a quella povera creatura.
Circa 6 ore dopo, in procinto di partire, sono ripassato accanto a quei cassonetti, e potete immaginare il mio stupore nel vedere il poveretto che arrancava come poteva verso il marciapiede, nella speranza di mettersi al riparo, se non altro dal sole battente.
Ho provato, per quella bestiola, un dolore profondo. Mi sono vergognato per la superficialità con la quale l’ho semplicemente accantonata, dimenticata perché avevo altro da fare. Ho provato a mettermi nei suoi panni, cosa avrà pensato vedendo le persone passare senza muovere un dito? Impossibilitato a comunicare, accecato dal dolore; ho sentito freddo, paura, una solitudine sconosciuta, e ingiusta.
L’abbiamo preso, messo in una scatola da scarpe, e portato a Terranova, al Centro di Recupero della Fauna Selvatica. Nel nostro piccolo, abbiamo teso una mano.
Altra paura, in quella scatola, movimenti frenetici, spasmi, tentativi di fuga. «Voglio vivere!» sembrava dirci, «Tirami fuori, ho paura, è buio qui! Non farmi del male. Ancora».
Categorie