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Ditate

Perché mi devo fermare.

La notte di settembre è diversa. Te ne accorgi subito e non è questione di temperatura, o umidità. Senti che ti stanno portando via qualcosa, forse proprio il cielo, quell’addio è più lontano, le risate si sfocano, passano sullo sfondo, la musica ti lascia pensare. Senti che fa meno male. Settembre. Settembre fa meno male. Una notte che arriva, un giorno che passa, il sole negli occhi, un bacio sulla bocca. Fanno meno male.

Ma la mia notte, in questo settembre, non parla del sapore che hanno le tue labbra, delle mani che mi hanno sfiorato, dolcemente, o mi hanno esplorato a fondo, quasi violentemente, lasciando segni profondi, segni che sarà piacevole indovinare domattina, che mi distrarranno dal dolore, dall’aria nei polmoni, dai minuti tutti uguali. La mia notte, in questo settembre, esige il suo tributo di sangue, chiede a gran voce un sacrificio, e l’avrà. La mia notte è tutta concentrata su se stessa, non vede e non può capire altro, non riesce a concepire un paesaggio che non sia questa strada lunga e diritta, con poche case sparse ai lati, poco illuminata, questa luna tagliata a metà, e il suo silenzio quasi autistico, a tenuta stagna. L’auto procede senza fretta, come il tempo, e tutto ha la velocità giusta, tutto quello che sarebbe dovuto succedere è successo, tutti i pezzi del puzzle sono al loro posto, la scacchiera è vuota: resta solo la regina. Nera. Come la notte. Come la morte.

Mi fermo perché mi devo fermare. Due cassonetti della spazzatura bloccano il passaggio, uno per ogni carreggiata. Dio solo sa cosa ci facciano in mezzo alla strada, presenza arrogante che sfida la paziente e ruvida monotonia dell’asfalto, reclamando il fastidio della vita. Così sbagliati e inevitabili. Come il primo bacio. O l’ultimo. Ho sonno, e vorrei già essere a letto, i pensieri si rincorrono, ma sono ancora distanti, ovattati. Apro la portiera, scendo dall’auto quasi meccanicamente, e mi avvicino a quegli ostacoli così assurdi, eppure così definibili, inequivocabili. L’aria già pungente di settembre mi accarezza sotto la camicia, tra i capelli, e senza disturbarmi troppo mi sveglia, come una madre sbrigativa, ma dolce. Con una nuova consapevolezza osservo i cassonetti. Sono lucido ora, e mi rendo conto che sto guardando qualcosa che nessun altro potrà mai vedere. Certo qualcuno ce li avrà spinti, lì in mezzo, ma per lui la scena non ha alcun senso, se ci pensi bene. O, meglio, ce l’ha fin dove arriva lo scherzo, la bravata, il brivido lungo la schiena. Poi è lui stesso a scegliere di girarsi dall’altra parte, andarsene via; e anche se sa che prima o poi un automobilista dovrà scendere dall’auto e spingere con un certo risentimento quei maledetti affari a bordo della carreggiata, di nuovo al loro posto, lui non sarà lì a godersi lo spettacolo. E pertanto il suo apporto alla vicenda è lo stesso di quello del bufalo che muore e lascia il suo teschio nel deserto. L’ha sempre avuto con sé, ma non l’ha mai perfettamente visto.

Per me, invece, il momento si trascolora di una perfezione quasi dorata. Pur nella sua assurdità, non me ne sfugge l’unicità, né la delicata magia. Spengo i fanali dell’automobile, e lascio solo la luna a descrivere i contorni delle immagini. Ecco cosa prova chi vede ciò che gli altri non riescono, non possono vedere. Dev’essere così: particolari che sono sempre a portata di mano, eppure sfuggono, ingombranti della loro inesplicabile semplicità, indefinibili eppure familiari, intoccabili proprio a causa della loro esasperante ineluttabilità, abbaglianti della luce lattiginosa e fioca di una mezza luna di settembre. È così per te, amore mio? Non lo so, non lo saprò mai, perché mi devo fermare.

Esplodono, i cassonetti, l’avresti mai detto? E io muoio. Così, perso nella contemplazione di un attimo indefinibile, e protagonista io stesso, ma stavolta nel senso più profondo e scomodo, di una scena che mai alcuno vedrà: la mia morte. Accorreranno le persone, dalle abitazioni vicine, svegliate dall’esplosione, accorreranno con il sonno ancora sulla faccia, con le vestaglie un po’ aperte, con le ciabatte, e staranno lontane dal fuoco in mezzo alla strada, così vicino all’auto, al serbatoio che nei film esplode sempre, nei film americani dove la morte è trattata come un episodio dolente e necessario. Accorreranno i curiosi e troveranno forse il mio teschio di bufalo nel deserto, ma non avranno mai il mistero e la bellezza, la luce e il frastuono, la violenza e il calore della mia uscita di scena: solitaria e abbacinante. Essi sfuggono anche a me, che pure li ho sempre portati in petto, senza mai riuscire a possederli perfettamente. Li ho solo intravisti in qualche riflessione sudaticcia e paurosa nel cuore della notte, come in una fotografia -radiografia!- sfocata, un incubo presto dimenticato, una preghiera appena accennata. Perché è così che viviamo, portandoci appresso la tristezza dorata della nostra morte. Ma non lo si capisce che dopo. Dopo che ci si è fermati, nel cuore della notte, davanti a due cassonetti che non avrebbero dovuto essere lì.

2 risposte su “Perché mi devo fermare.”

D’improvviso un albero ostacolava il sentiero
come se si fosse
messo a camminare e allora
l’avesse abbattuto
la selva, e stava lì
grande come mille uomini,
con la sua chioma folta,
pullulante d’insetti,
fradicio di pioggia,
ma dalla morte
voleva fermarmi.

Io saltai l’albero
lo feci a pezzi con l’ascia,
accarezzai le sue belle foglie con le mani
toccai le potenti
radici che molto più di me
conoscevano la terra. […]
Io attraversai le alte cordigliere
perché con me un uomo,
un altro, un uomo
camminava al mio fianco. […]
Non so come si chiama.
Era povero come me, aveva
i miei stessi occhi, e con quelli
apriva il sentiero
perché un altro uomo passasse.
Ed eccomi qui.
Per questo esisto.

Solo l’uomo (Neruda)

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