La testa e il cuore
Straripanti di musica
Che nessuno vuole ascoltare
La testa e il cuore
Straripanti di musica
Che nessuno vuole ascoltare
I tuoi occhi accesi
Inseguivano il capriolo o la volpe
Che aveva lasciato una traccia
Nell’erba alta
Il raro tempo e le stelle
Le foglie ove si sbreccia la strada
Gli insetti e i latrati dei cani
Le tue mani
Per un attimo tutto parve immobile
Nella sera afosa che fuggiva via
Poi alle prime gocce di pioggia
Ci affrettammo
Pur sapendo bene
Che al di là del temporale
Era la fine dell’estate
Come se potessi abbracciare l’orizzonte
Suonare il mondo
Con una mano sfiorare montagne e fiumi
Arrivare alle sorgenti
E con l’altra percorrere le strade infinite
Le città dimenticate
I miei accordi come albe
Ogni nota un raggio di luce cristallino
Che sfuggisse dal mio petto
Chino sulla mia chitarra abbracciare il tuo tutto
I silenzi le ombre le pianure assetate
Della tua voce, scivolare
Tra i tuoi pensieri i colori
Le risate le tue mani
E fare musica del mio amore
– Non sapevo di essere una stella –
Mi hai detto quel giorno.
E io avevo solo la tua luce,
– per vivere – per sognarti
da lontano senza mai toccarti.
La luna – innamorata del sole –
ci sembra sempre triste.
Nei miei sogni sei sempre di profilo
guardi un punto lontano
un futuro che non è il mio
Una farfalla turchese mi volteggia accanto
la notte è fresca si attacca alla pelle
come una canzone banale
ti cerco sotto i lampioni
sparsi
ma sei brava a evitarli
La notte è fresca e l’angolo della tua bocca
sa di ciliegia
mentre l’assiolo continua a chiamarmi
dal passato
«The telescope was invented in 1608 by a Dutch lens grinder, Hans Lippershay. One day Lippershay discovered accidentally that by putting lenses at both ends of a tube and then putting the tube up to his eye, he could view things “close up”. He called his device a looker, and thought it would be useful in war. Galileo got hold of one, improved it a little, and then used it himself to challenge prevailing ideas about the solar system. This music is dedicated to the spirit of Galileo.»
Sulla curva dolce del tuo collo
tutto perde significato,
anche il mio continuo cercare
smarrito in un istante di nulla assoluto.
Passata è la nostra ora
brucia lentamente il filo che ci tiene sospesi – distanti.
Non sporgerti troppo: presto cadremo e l’uomo dello spazio ha braccia deboli.
Domani le tue dita, come foglie nuove, porteranno la rugiada del mattino.
Sulla nuca hai le cicatrici dei baci che non ti ho dato.
Il tuo profilo è volo d’airone
Spiccato dalle cime innevate
Che il cielo limpido oggi lascia vedere
La tua assenza lascia un’eco malinconica
Nelle orecchie
E un ritmo sbilenco al cuore
Come le macchie scure che avevamo negli occhi
Quando abbiamo guardato il sole
Quando ero piccolo, e mi cadeva una caramella a terra, prima di metterla in bocca dovevo soffiarci sopra. Così mi avevano insegnato. Per togliere la polvere, o i microbi, credo, o per allontanare qualche altro spauracchio di mia madre. Se ci ripenso mi viene da ridere: bastava il soffio di un bambino.
Altri tempi.
Chissà che sapore avrebbe avuto, la caramella caduta a terra, senza il mio intervento riparatore? Mai avuto abbastanza gusto per l’avventura da abbandonarmi al rischio, per scoprire magari qualcosa di nuovo. Ho sempre preferito restare entro i confortevoli confini di quello che sapevo con sicurezza. Fosse pure la mia piccola sicurezza di bambino.
6 giugno 2003
Debora è una barista. È bionda, snella. Molto carina. Direi, anzi, proprio bella. Quello che colpisce di lei è una certa sbadata eleganza nei movimenti, nel modo in cui gira la testa, e i capelli lo sottolineano, nel modo in cui si ferma ad aspettare, o guarda chi le chiede una bevanda, nella curva piacevole della sua schiena, nel viso affilato, nei gesti rotondi e precisi delle mani, che tracciano linee sottili e rapide nell’aria, nella musica, nella notte.
Lavora nel giardino della discoteca, in una specie di gazebo di legno, quadrato e aperto su tre lati. Al centro troneggia la Babele delle bottiglie dei liquori e delle brocche per i succhi di frutta, i bicchieri di plastica, il ghiaccio, i cucchiai, gli shaker e le cannucce colorate, che lei maneggia con disinvoltura, con professionalità, con quel distacco tipico di chi può permettersi il pilota automatico, nella routine del lavoro, nel seriale riproporsi di cocktails e drinks, dolci e amari e azzurri e rossi e gialli e verdi. Chissà a cosa pensa? Ogni tanto muove le labbra a seguire le parole di una canzone che arriva e le piace.
Come se facessi fatica anche solo a respirare
E neri mi apparissero d’un tratto tutti i sogni
Tutti i giorni futuri senza te
L’airone sul ciglio della strada mi guarda col suo occhio perlaceo, pennellata di bianco vivo sullo sfondo atono della campagna. Unica figura in rilievo, come una coreografia immobile per la musica che sto ascoltando; il momento, il quadro è così sublime che sento il cuore traboccare di gioia.
La curva del collo; la delicatezza che sembra governare ogni singolo aspetto della sua esistenza; l’arco delle ali; la fierezza del becco puntato verso l’orizzonte; l’eleganza. È così che la Natura mi parla di te.
Ho paura di perderti, ecco quello che non voglio ammettere, nemmeno a me stesso. Il nostro legame, capace di volare altissimo, e con forza inaspettata lasciare a terra tutte le miserie e piccolezze dei nostri simili, è fragile e delicato come il collo di questo airone, apparso dal nulla per parlarmi di te. Di noi.
Posso fidarmi di te, di quello che sento? La canzone finisce e la creatura sembra ritrarsi dalla mia vista, si ripiega su se stessa con un gesto innaturale, sgraziato. Ritorno alla realtà, e anche se la paura non è scomparsa – non mi abbandona mai – ora ho una chiave.
Solo la musica può arrivare dove le parole falliscono, e uno sguardo non mi basta più. Solo con la musica posso accarezzare il tuo cuore, dolcemente e come vorrei. Posso abbracciarti tutte le volte che voglio.
Suonare, con te, è la forma più pura dell’amore.
Nella mia musica è tutto l’ineffabile che provo per te.
Perché avremmo dovuto stare insieme tutta la notte. E ancora. Non avrei dovuto lasciarti andare.
Sto tornando a casa. Guido, da solo. Presto sarà giorno, ma è ancora buio. Quante luci: grandi, piccole, forti, deboli, bianche, gialle, rosse. Non ci fai più caso, in un certo senso non le vedi. Ce la immaginiamo sempre scura, la notte, con qualche stella, al massimo la Luna, e invece soprattutto lungo la strada, questa strada, è un fiorire continuo, quasi un affollamento. Insegne di negozi, lampioni, fari, altri lampioni. Poi ci sono quelle cosine intermittenti, di solito arancioni, che ci avvisano, ci ricordano di fare attenzione. Ma nulla spicca, è come una pianura distesa, placida e regolare, tanto che, appunto, non le noti più.
Sto tornando a casa e guardo avanti, verso l’orizzonte, dove sempre tutto finisce. O inizia. E vedo il limite, il bordo della notte, che sembra tingersi di rosso. Come una ferita, ma che non fa male, una ferita di luce.
Capisco improvvisamente, in un raro momento di epifania, che presto tutte queste luci che si affollano davanti ai miei occhi perderanno ogni senso, diventeranno ancora più piccole e deboli, e i loro colori sbiadiranno, appassiranno. Sento che mi manchi e vorrei che fossi qui, a guardare l’alba con me.
Sto tornando a casa e ora più che mai mi è chiaro come prima di incontrarti la mia vita fosse solo un rincorrersi di bagliori artificiali, forti o deboli, bianchi o gialli che fossero, fissi o intermittenti, e perché se non sei con me tutto mi pare piccolo e privo di significato, mentre quando ci sei mi sento non dico utile ma almeno completo.
Perché tu sei l’alba.
Giovedì notte, quasi mezzanotte. Porto giù la mia cagnolina, per l’ultima pipì, prima di andare a dormire. Fa freddo, non c’è nessuno in strada, i locali sono chiusi, uniche luci i lampioni. Ariel annusa e sembra stia cercando qualcosa. Io mi lascio avvolgere dal silenzio e dalla notte, i pensieri che si perdono, inseguendosi.
A un tratto, dal buio emerge una figura. Un uomo cammina verso di noi, senza fretta. Abiti comodi, un giubbotto giallo, sottobraccio tiene una scatola di cartone. Ariel si allerta, gli corre incontro, la trattengo a fatica.
“Eh, ti piacerebbe vero?”, si rivolge alla mia piccola amica, con voce gentile. “Ma non te la posso dare, è la mia cena questa…”, le sorride. Poi mi fa un cenno di saluto. Prosegue e quando mi passa accanto percepisco il profumo intenso che ha attirato Ariel.
È il pizzaiolo, lavora a pochi passi da casa mia, ha finito il turno e si sta dirigendo verso un meritato riposo. Mi sorprendo a pensare a quanto sia fortunato quest’uomo, che piacerebbe anche a me un lavoro come il suo, una notte fredda e serena, e rincasare con un cartone di pizza sotto il braccio.
Ma poi mi ricordo che è giovedì, e anche io sono tornato a casa che già era notte. Sottobraccio non avevo la pizza ma una chitarra, nelle orecchie tanta musica, la tua voce, e le nostre risate. Ripenso il tuo sorriso e la luce del tuo sguardo rende meno fredda l’aria. E il tuo profumo, di biscotti appena sfornati, che Ariel non può sentire, ma che ora è qui con me.
E amo tutta la mia vita.
Sul ciglio ti ho intravista della vita
sensi vibranti, occhi grandi.
Come la lepre atterrita
fiuta il pericolo, in un guizzo sei sparita
nel granturco.
Qualche giorno fa, andando a buttare la spazzatura, ho notato, accanto ai cassonetti, il corpo di un uccellino. In condizioni disastrose, non era un bello spettacolo con mezza testa fracassata e le ali piegate in una posa innaturale. L’ho dato per morto, e me ne sono velocemente dimenticato.
Era mattina presto, di una giornata particolare: una breve vacanza in vista, tante cose da fare, preparativi dell’ultimo minuto, fretta, un po’ di nervosismo, e non ho avuto tempo per pensare a quella povera creatura.
Circa 6 ore dopo, in procinto di partire, sono ripassato accanto a quei cassonetti, e potete immaginare il mio stupore nel vedere il poveretto che arrancava come poteva verso il marciapiede, nella speranza di mettersi al riparo, se non altro dal sole battente.
Ho provato, per quella bestiola, un dolore profondo. Mi sono vergognato per la superficialità con la quale l’ho semplicemente accantonata, dimenticata perché avevo altro da fare. Ho provato a mettermi nei suoi panni, cosa avrà pensato vedendo le persone passare senza muovere un dito? Impossibilitato a comunicare, accecato dal dolore; ho sentito freddo, paura, una solitudine sconosciuta, e ingiusta.
L’abbiamo preso, messo in una scatola da scarpe, e portato a Terranova, al Centro di Recupero della Fauna Selvatica. Nel nostro piccolo, abbiamo teso una mano.
Altra paura, in quella scatola, movimenti frenetici, spasmi, tentativi di fuga. «Voglio vivere!» sembrava dirci, «Tirami fuori, ho paura, è buio qui! Non farmi del male. Ancora».
Ancora cerco lontano il faro
della tua cara effige bruna
mio unico approdo di fortuna
in questo strano oceano amaro.
«No, non c’è un modo intelligente per uscirne, Marco. Lo so e basta.»
Ed è così: lo sa. Punto e basta.
Da quando ha attraversato la strada, schivando per un pelo quell’auto. Già. Per un pelo.
O così almeno aveva creduto, sulle prime. Salvo poi rendersi conto che non ci era riuscita. L’auto l’aveva presa in pieno, scaraventandola contro il marciapiede, dove aveva battuto la testa. Ora, con gli occhi sbarrati, distesa sulla schiena, un rivoletto di sangue che scivola lentamente dalla bocca socchiusa, il braccio destro disteso e la mano che stringe ancora il cellulare, Alice è morta. Non ha senso usare giri di parole o metafore.
Ma dal telefono esce la voce di Marco.
Potesse questa terra
sfinita
dove ti hanno sepolto
avido grembo
da cui proveremo a rinascere
riempirmi le orecchie
soffocare
il silenzio straziante
dei fiori bianchi
che piangono la tua morte
o seccarmi il cuore
così che non mi ferisca
la muta indifferenza
degli alti cipressi
troppe volte calpestati
per accorgersi
che noi stiamo passando.
La notizia arriva, inaspettata, e mi fa girare la testa. Mi rimbomba nelle orecchie, mi strozza la gola. Resto senza fiato per qualche minuto, ma passa presto. Tutto perde significato, anche la notizia stessa, mi sento sollevato e distante, i sensi ovattati. Spero con tutte le mie forze che sia un errore, ci credo, quasi. Poi però vedo le bacheche degli amici, su facebook, che iniziano a popolarsi di frasi, foto o video dedicati a lui, e capisco che non c’è risveglio, stavolta, da questo sogno ‘misto-blu’.
Allora penso che forse dovrei scrivere qualcosa anche io; che vorrei, tanto, ma non so cosa…
Cosa si fa quando muore un amico? Cosa si dice, cosa si scrive?
Non c’è un manuale di istruzioni, qualcosa che ti faccia sentire preparato. Non c’è.
Io avevo voglia di ascoltare il Mare, sedermi sulla spiaggia e piangere con Lui. Stare davanti a qualcosa di immenso, e sentirmi piccolo, sparire.
Col vento che soffiava forte
sulla nostra vela bianca
E il mare tutto aperto
davanti a noi
A volte mi chiedo dove
saremmo potuti arrivare
Una favola, da leggere con questa in sottofondo.
Di notte, quando tutti dormono, anche il Sole va a riposarsi, dietro le montagne, e nel cielo compare sua sorella minore, la Luna. La sua luce è molto meno forte, anzi a volte sembra quasi che non ci sia proprio, tanto è debole, ma, anche se non riusciamo a vederla, la Luna veglia su di noi, con il suo sguardo benevolo ci accompagna verso ogni nuovo giorno. Grandi e piccini, da sempre alzano gli occhi al cielo notturno, per cercare conforto e sussurrare speranze alla dolce rotondità del suo volto.
Questa è la storia di Lucilla, una bambina molto carina che aveva un bel visetto rotondo, due occhi azzurri grandi grandi e uno sbuffo di capelli neri neri sulla testa, che non ne voleva sapere di stare a posto. Curiosa e vivace, era sempre allegra e le piaceva tanto giocare e stare con la sua famiglia e i suoi amichetti. Però c’era una cosa che nessuno sapeva, un segreto: Lucilla non voleva guardare la Luna. Soprattutto quando era piena, e da sola rischiarava il paesaggio, perché temeva che la luce fosse troppo forte e potesse bruciarle gli occhi, come quella del Sole. Ma anche quando era soltanto uno spicchio appeso alla notte, aveva paura di quelle punte che le sembravano così aguzze e affilate. Allora nascondeva la testa sotto il cuscino, o si rannicchiava tutta sotto le coperte, con gli occhi ben chiusi, e sperava che arrivasse presto il mattino.
La curva delle tue spalle nude
modellate nel legno tenero,
il tuo sguardo che non si appaga
nell’aria fine dell’estate che muore
e il nostro amore che si schiude
su uno sfondo di giallo granturco.
Cammini verso di me
ineluttabile come il domani
…………………………
poi ti allontani
com’è da sempre.
Ogni cosa intorno su se stessa
si ripiega
mentre il cuore smarrito non si spiega
il vuoto tra noi.
Da sopra la tela annerita e lisa
smangiata dai secoli, intrisa
ogni notte di nuova pece
pure filtra una luce
di aliene stanze
– di altre ansie
conforto a noi ignari.
Al tedio malato di dèi avari
sussurriamo segreti, e speranze.
Regaliamo i pianti sinceri
e gli amori più veri
a chi ride dei nostri desideri.
Lascia che io ti scosti con la mano
i capelli dalla fronte
e poi gli specchi.
Ultime fronde polverose
prima del mare che hai negli occhi.
appunti di viaggio – 19 agosto 2012
La città, pur con il suo porto, non è abbastanza grande per contenere il mio desiderio di te.
Ti cerco continuamente, dappertutto, in ogni conchiglia, su ogni scoglio, dentro ogni onda. In alto in un cielo senza nuvole. Tra la gente nei negozi, sulle panchine o nei bar, nello sguardo fisso del gatto nero tra i cespugli.
Tutte le albe del mondo non sono abbastanza luminose da offuscare la tua immagine.
Come il riflesso delle luci sul mare notturno, la mia anima è scossa da ogni alito di vento, dal minimo colpo di pinna o battito d’ali.
La fiera desolazione del paesaggio, aspro e ruvido, non mi sazia. Tu sei l’acqua che manca, qui.
I piedi sono ricoperti di polvere, ogni mio passo è nella ricerca di te, di un segno rivelatore. Il sole, implacabile, tormenta la mia ombra.
Sento la polvere tra i capelli, negli occhi. Il mio respiro agita granelli impalpabili. Il mio cuore pompa questa polvere, con fatica.
Mi siedo a un caffè, mentre il sole accarezza l’orizzonte. Il mio sguardo si perde nel movimento incessante della piazza, del molo, delle gambe abbronzate, dei bambini che corrono. Linee si intersecano, voci si sovrappongono, risate e colpi di tosse, la scena perde nitidezza e tutto diventa distante, uniforme.
Poi, dal confuso fluire, emerge una figura, finalmente viva, definita, dipinta con i tratti energici della rivelazione. L’uomo ha una t-shirt bianca e un viso scuro, scavato profondamente; capelli neri e cammina nella mia direzione.
Sulla spalla sinistra un pappagallo. Rosso; sulle ali pennellate di azzurro, verde e giallo. Meravigliosamente fuori posto, l’animale è il segno che aspettavo. In esso è tutta la tua sfrontatezza, la bellezza che toglie il fiato, il colore e la vita che sprigioni, il desiderio che non si placa mai, l’esplosione dell’estate. La capacità di sollevare il velo dell’indifferenza, risvegliare forze sopite, sradicare certezze.
Elegante, sembra l’unica cosa in movimento nel fermo-immagine generale, l’unica scelta in mezzo a un turbine di eventi casuali.
La visione dura il tempo di un sospiro, ma tutto è silenzio, pace, finché viene riassorbita dal rumoroso nulla intorno.
Pochi attimi, e ora so che il mio passo sarà più leggero. So che la ricerca non è vana.
Appoggiata a me, sonnecchi.
Di là dai tuoi occhi mondi
s’inseguono e melodie
t’incantano – angeli duettano
con te – armonie
che non posso intravedere.
Io che di te vorrei possedere
anche il dolore.
Ti muovi appena, sorridi
forse. Albeggia.
Muto memento mori
lo sbuffo di capelli neri
che dalla dolce nuca
tua distrattamente ammicca.
Lo schiudersi del tuo sorriso
è una pianura che si veste
d’alba; miracolo sul tuo viso
m’inonda di musica celeste.
Anche stanotte la Luna è una scusa
per sentirmi tutt’uno col vento
che ti bacia impudico
i capelli e li annoda
alle mie dita.
E mentre mi appari vestita
di sola Luce e desiderio
riconosco del viaggio
le tracce che hai lasciato
a guidarmi.
Con mano tremante
ho raccolto semplici sassi
dal greto del fiume.
Ho pianto di gioia all’ombra
di un giovane faggio
e ho cercato riparo
dalla meravigliosa bufera
assieme a una gatta nera.
Il cuore in gola
e il respiro spezzato
ogni petalo ho amato
della più piccola margherita,
ho avuto paura
del suo bianco palpito di vita.
Ma non abbasserò lo sguardo
davanti al tuo corpo nudo,
mia dolcissima Estate
la mia mano non esiterà
sui frutti che mi offri maturi.
Perché tua è la bellezza della Natura,
tu sola mi puoi salvare.